“Per secoli abbiamo costruito città interamente di minerali, fatte di pietra, sabbia, vetro e metallo, respingendo gli alberi esterni. Anche il concetto di foresta (dal latino foris, cioè fuori) è il risultato di questo errato esilio volontario. La città doveva difendersi dalla natura, doveva proteggerci dagli alberi. La foresta era lo spazio da cui la città doveva salvarci. Contro la foresta la città si è costruita un corpo di pietra. Per distinguersi dal corpo del resto dei vivi, l’uomo ha deciso di vestire il corpo collettivo con involucri minerali. Foresta significa alla lettera << campo profughi >> per non-umani. Ogni volta che parliamo di foreste parliamo della nostra volontà di respingerli fuori, lontani da noi, di pretendere che siano degli immigrati illegali in città.“
cit. Emanuele Coccia, da On Trees and Woods – Cosa ci insegna il bosco
Un giorno del ventunesimo secolo ci siamo svegliati ed abbiamo scoperto, nostro malgrado, ovvero malgrado i piani, le idee, i progetti, gli studi, i grafici, che non ci sono più alberi da piantare.
Nessun tronchetto pronto per essere piantumato, nessun arbusto in vendita sullo scaffale.
Qualcuno ha capito quindi che l’albero non è un bene di consumo che può essere prodotto in serie per poi essere venduto e messo a dimora.
Qualcuno ha anche capito che non esiste una macchina che dal seme crea un albero nel tempo di un ciclo di produzione.
In fondo per un’eternità intera abbiamo costruito ogni tipo di barriera tra noi e gli alberi, quasi a voler rinnegare con tutte le nostre forze quel “veniamo da lì” tipico di chi si vergogna dei propri natali, delle proprie tradizioni, della propria cultura.
Io penso che chiunque rinneghi la propria storia, le proprie tradizioni, la propria provenienza viva una vita a metà.
E’ un po’ come essere impediti nel camminare da una menomazione incurabile.
E’ un po’ come essere incompleti e come tali perennemente insoddisfatti.
E’ un po’ come essere degli Homo Sapiens Sapiens.
“L’abbattimento della foresta a favore della pietra non è privo di conseguenze: un mondo fatto solo di pietre è, tecnicamente, un deserto, e la furia minerale dell’uomo non può che portare alla desertificazione del pianeta.“
cit. Emanuele Coccia, da On Trees and Woods – Cosa ci insegna il bosco
In fondo tante città sono già dei deserti
Spesso legate a queste realtà vengono associati termini del tipo “polmone verde“. Scappa un po’ da ridere perchè ad occhio e croce questi “polmoni verdi” sono inevitabilmente invasi da decine di migliaia di animali che dal deserto cercano un riparo perchè, come è capitato a me qualche anno fa, si arriva ad un punto dove si capisce che cosa ti fa stare bene e quando lo capisci allora scatta in te la necessità, quasi una bramosia, di quel qualcosa come se fosse l’antidoto a tutti i tuoi mali più profondi.
Ma ogni volta non è mai abbastanza perchè ogni volta capisci meglio quanto la frattura tra la tua essenza di animale e il mondo circostante sia larga e profonda e per quanto tenti di colmarla questa continua inesorabilmente ad allargarsi.
Non mi rimane che far lavorare l’immaginazione e pensare ad esempio a come sarebbe ribaltare il concetto di polmone verde in polmone grigio, ovvero una città nella quale il verde di alberi e prati domina incontratato, nella quale spiccano alcune isole minerali.
Questo immaginare è chiaramente un esercizio puerile, perchè di per se sto immaginando uno scenario utopico, ma siamo poi così sicuri che immaginare queste cose sia inutile?
Concludo quindi con una citazione dal libro “La Grande Estinzione, Immaginare ai tempi del collasso” di Matteo Meschiari:
Immaginare non significa inventarsi unicorni rosa o casette nelle praterie dell’anima per nascondersi dall’avanzare dell’ombra. Non è fantasticare a briglia sciolta o farsi dei film che nessuno vedrà mai. L’immaginazione è una facoltà cognitiva insostituibile, che solo le menti più rigide considerano in opposizione al pensiero razionale. Immaginare significa invece moltiplicare gli scenari di azione senza rischiare di rompersi il muso in una mossa avventata. Immaginare significa cercare di capire che cosa sta pensando chi abbiamo davanti, per prevederne le mosse e prepararci ad agire prima di perdere il treno degli eventi. Immaginare significa costruire dei mondi possibili che magari nessuno realizzerà mai, ma che potranno ispirare delle scelte molto concrete e molto utili. Immaginare significa non accontentarsi della datità del mondo, della cruda realtà, che alcuni chiamano la ‘vita reale’ e che ovviamente non esiste se non nel monopensiero, quello che la politica gerarchica e totalitaria prova sempre a imporre in ogni ambito sociale. A che cosa serve infatti l’utopia se non a ricordarci che non dobbiamo accontentarci dell’adesso-qui? Che cos’è l’utopia se non una pratica dell’immaginario per sperare diversamente? Non a caso l’immaginario è il vero grande bersaglio di ogni regime autoritario: ridurre le capacità immaginative di ciascuno, convincere la gente che la costruzione dell’immaginario vada delegata ad altri, riempire l’immaginario delle masse con narrazioni che servono essenzialmente a generare paura e bisogno di una guida unica. Perché immaginare è un gesto eversivo, e quello che oggi sta accadendo è che il controllo delle immagini sta sfuggendo suo malgrado a chi vorrebbe controllarle.
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