Ad inizio ottobre avevo scritto un post sulla geolocalizzazione prendendo spunto dall’originale “THE GOOD, THE BAD, AND THE GEOTAG“ che avevo letto in rete.
Qualche giorno fa ad una mia foto sulla quale risultava impossibile determinare posizione e luoghi ripresi, un amico commentava così:
“E’ senz’altro molto importante perché permette di confrontare la propria memoria con la visione del fotografo (A. Adams teorizzava la follia delle foto non “geolocalizzate” se mi passi il termine). Una foto di luoghi di cui non conosco il luogo perde (imho) il 90% del suo interesse.”
Dopo aver letto la frase non nascondo che mi sono sentito spiazzato. Ho cercando quindi di ragionare ribaltando l’affermazione verso me stesso, quello che è emerso sono una serie di considerazioni, non solo sugli aspetti fotografici, che cercherò di esporre nel modo più chiaro possibile.
Il primo aspetto su cui mi sono soffermato è stato che se l’uomo, nel corso della sua storia, avesse aspettato di vedere con i propri occhi un luogo per poi dire “sì questo luogo mi interessa, voglio proprio andare a vederlo di persona” probabilmente saremmo ancora al terrapiattismo.
Con questo intendo dire che l’innata spinta verso l’esplorazione dell’uomo ci ha permesso di disegnare ogni centimetro della mappa che racconta questo pianeta. Di sicuro gli esploratori che partivano in nave nei secoli scorsi spesso e volentieri non avevano la minima idea di cosa avrebbero trovato sul loro cammino.
La seconda questione su cui ho indugiato, pensando molto anche al mio modo di trovare luoghi, è che sempre più spesso apro sulla scrivania una cartina e cerco di studiare percorsi nuovi anche magari in luoghi dove vado da decenni. Questo mi obbliga a indagare ed approfondire il territorio e le sue dinamiche.
In poche parole, il viaggio inizia a casa. Stimolo la mia fantasia e costruisco un attesa che mi permette raccontare poi una storia, la mia.

Terzo aspetto da considerare. Da sempre più parti si alzano voci contro il turismo di massa che devasta in determinati momenti dell’anno certi luoghi iconici. Mi chiedo se smettere di geolocalizzare non sia una buona pratica per cercare di salvaguardare non tanto quei luoghi iconici, ma tutti gli altri che non lo sono ancora. Lasciare quindi al singolo l’onere di scoprire e quindi di investire del tempo e delle energie per raggiungere un obiettivo.

Quarto, ma non meno importante, cosa aggiunge all’occhio dell’osservatore conoscere cosa viene rappresentato in una fotografia? Siamo onesti, di fronte ad un’immagine magnifica, conta veramente sapere cosa è ripreso?
Forse nell’ottica e nell’era del “io c’ero“, “io ci sono stato“, “io l’ho fatto” è essenziale per poter aggiungere un segno di spunta o una wish nella lista dei desideri. Probabilmente non siamo più in grado di godere della bellezza in quanto tale.

Chiudo dicendo che viviamo in un’epoca nella quale sempre più spesso i luoghi sono le immagini che li rappresentano. I luoghi hanno perso la loro anima in funzione della loro commercializzazione e socializzazione.
Tutto ormai è accessibile a tutti senza il minimo sforzo e quel sano aspetto dell’indefinito che rendeva l’esplorazione e quindi la scoperta più gustosa si è persi tra i bit dei social network.
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