D’altro canto la campagna, la nostra campagna, è completamente finita, distrutta, slabbrata, violentata. E’ sporcata e insozzata dagli inquinatori, è frazionata dai lottizzatori, oppure abbandonata, con le case dirute e crollanti su per le montagne e in alto lungo le coste, e svenduta poi ai villeggianti che la guardano distratti come una veduta in cartolina. Ma le fotografie di Ghirri non sono una denuncia di questa situazione, o, se lo sono, vogliono farlo in modo diverso. Le fotografie di Luigi Ghirri mi sembra vogliano farci capire che ogni cultura media le proprie immagini attraverso il passato. (…) Deve risolvere insomma il dilemma se fare una foto di finta denuncia, quella dalla quale siamo partiti agli inizi, oppure se deve invece costruire un paesaggio e una foto di paesaggio come se si fosse di fronte ad un paese intonso e incontaminato. Un paese che non esiste.
Ecco, di queste due strade Ghirri, intelligentemente, non ne ha scelta nessuna e ha provato ad andare avanti per una via che era meno evidente e chiara in sue opere precedenti e che invece, oggi, qui, mi sembra lineare e precisa. Dentro la nostra cultura il mito del paesaggio è quello dell’arte, della pittura; noi vediamo il “naturale” attraverso questo mito, attraverso queste griglie della memoria.
A.C. Quintavalle, da “Un opaco labirinto”, in Viaggio dentro un antico labirinto.
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