Ad inizio settembre mi sono imbarcato in un trekking che volevo portare a termine da alcuni anni. Si tratta di un percorso particolarmente lungo e dal dislivello, per quanto mi riguarda, considerevole.
Non nascondo che durante la salita almeno un paio di volte mi sono chiaramente detto “non ce la faccio, oggi proprio non ne ho“. Ho però tenuto duro facendo quello che in questi casi mi viene meglio ovvero chiudermi a riccio, rallentare e concentrarmi solo sul respiro.
Sguardo basso a guardare solo i piedi e null’altro.
Per me questa strategia ha sempre funzionato.
La sera, dopo aver guadagnato nuovamente un letto confortevole, sono andato a rivivere i momenti per me più importanti e ho realizzato di come avrei potuto calcare la mano costruendo un racconto epico incentrato sui panorami mozzafiato, sulla prestazione eccezionale (almeno per quanto mi riguarda), sulle altezze raggiunte, ecc.
Insomma, utilizzare tutti quegli argomenti cari ad una certa narrativa per creare audience.
Nulla di tutto ciò.
Per quanto mi riguarda infatti la montagna epica non esiste, se non proprio in una certa narrativa che non è la mia.
Quello che vi racconto invece è l’enorme fatica che ho provato sia a salire che a scendere.
Sì perchè per chi non è avvezzo ai grandi dislivelli se è vero che in salita si suda è altresì vero che in discesa si patiscono le pene dell’inferno (ginocchia in primis).
Quindi se per tre quarti della salita le cose sono andate abbastanza bene, l’ultimo tratto si è rivelato un vero inferno. La combinazione tra l’altitudine ed un cuore che ormai fa quello che può, mi ha veramente massacrato.
La fortuna ha voluto che almeno le gambe tenessero, quindi la strategia di cui prima mi ha permesso di guadagnare il rifugio tanto agognato.
Ho provato sicuramente soddisfazione nel raggiungere il rifugio, che era poi il punto più alto del percorso, ma questa è durata veramente poco. La spossatezza e la fatica enorme hanno offuscato completamente l’esperienza provata. Anche il paesaggio del quale conservo dei ricordi sfocati (per fortuna che ci sono le fotografie).
La sera ho quindi realizzato che ad oggi sono al limite delle mie possibilità fisiche.
Certo posso pensare di guadagnare qualcosa mantenendo una certa costanza nelle uscite, ma nel complesso, senza voler rinunciare ad avere l’attrezzatura fotografica con me, il mio limite è tracciato chiaramente.
Penso quindi che queste esperienze, lontanissime da una narrazione che vede la montagna epica conquistata o foriera di imprese mirabolanti, siano indispensabili per raggiungere la consapevolezza dei propri mezzi e dei propri limiti.
Ed è proprio la fatica l’unità di misura che determina il limite di ognuno di noi.
Raccontare di una montagna epica in fin dei conti nasconde chi siamo veramente, nasconde i nostri limiti facendoci apparire supereroi quando invece è con l’umità che si entra in contatto con l’ambiente che ci circonda.
Concentrarsi su di una montagna epica impedisce di stringere un legame con la montagna stessa.
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