Nella mistica della fotografia di paesaggio l’autunno riveste ovviamente un ruolo predominante.
Negli ultimi anni l’uso indiscriminato del termine “foliage” ha visto proliferare la di ogni pur di far leva sui deboli di cuore.
Orde di fotografi assediano quelli che ormai sono divenuti non-luoghi di alto richiamo “sociale”, nell’intento di sbarcare quel lunario dei social ormai preda dei soliti noti.
Il tutto in una mancanza generale di approfondimento del territorio lasciando il più delle volte gli astanti preda di un vaghissimo senso di frustrazione dato dal “perchè io non riesco a fare quella fotografia?”.
Anche io come tantissimi altri fotografi devo fare i conti con il poco tempo a disposizione e le grandi aspettative che ogni anno questa stagione porta con sè.
Quest’anno sono stato fortunato!
Infatti nell’uscita di sabato scorso ho trovato condizioni quasi perfette.
Colori quasi al massimo del loro splendore e chiome degli alberi ancora perfettamente integre.
A questo ho aggiunto 10 km di trekking tra boschi e crinali in una giornata dal sapore quasi estivo.
Come spesso faccio nelle mie uscite fotografiche, anche questa volta avevo già abbondantemente saggiato il terreno. Un po’ negli anni scorsi nella stessa stagione, e sopratutto lo scorso giugno quando avevo definito alcune zone nelle quale sarei voluto ritornare in autunno.
Ritengo, come ho già detto più volte in passato, questa fase di esplorazione e consapevolezza indispensabile per poter raccontare il paesaggio non solo di facciata ma anche nel suo dietro le quinte.
Andando magari a scoprire quegli angoli se volete meno conosciuti, vuoi perchè difficili da raggiungere, vuoi perchè di minor impatto fotografico.
Quel che è certo è che per poter instaurare una relazione profiqua con il paesaggio serve tempo.
Prima ancora che energia serve tanto tempo.
Tempo per esplorare. Tempo per ritornare. Tempo per assimilare. Tempo per osservare.
Ad esempio due anni fa lungo questo percorso conobbi un albero, un faggio. O quello che ne rimaneva…
Fin dal primo momento in cui lo vidi me ne innamorai. Quel giorno il tempo non era dei migliori. Molte nubi e pochi colori. Mi ripromisi di tornare…
A giugno, passando ai suoi piedi, gli detti un’occhiata per saggiarne le condizioni. Era ancora come quando lo avevo conosciuto. Bene, ci rivedremo ad ottobre.
Quando sabato sono arrivato all’albero ho dovuto constatare mio malgrado che dell’albero non rimaneva che un pezzo di tronco spezzato. Il resto era adagiato lungo il pendio a ridosso di un cespuglio.
Tutto intorno i rimasugli di quegl’esili rami ormai secchi da anni.
Un puzzle di legno impossibile da ricomporre.
Dal mio punto di vista questo ripetere, quando possibile, i percorsi ed i soggetti, mi da la possibilità di raccontarli secondo punti di vista diversi, più esaustivi.
Mi permette di entrare in sintonia con l’ambiente nel quale mi muovo.
Mi permette di prendere anche una certa distanza da quell’effetto wow sempre più ricercato e pubblicizzato.
Ecco perchè il Gran Burrone dello scorso weekend, per quanto eccezionale da un punto di vista cromatico, mi ha emozionato ma senza provocare in me quei moti di esternazione tipici di chi favoleggia epiche avventure.
Semplicemente il bosco, quasi al massimo del suo tripudio cromatico, si mostra per quello che è.
Un luogo oggi silenzioso, un luogo penetrato a fatica dai raggi di un sole calante. Un luogo nel quale la vita, che sicuramente c’è, è nascosta ai miei occhi.
Chi non ricorda le favolose immagini del Signore degli Anelli quando Frodo e Sam giungono a Gran Burrone?
Un luogo incantato, magico e ricco di misteri.
Sabato scorso il bosco era così: incantato, magico e ricco di misteri.
Ma attenzione, lo è ogni giorno dell’anno!
Non serve essere Gran Burrone due settimane all’anno per essere incantato, magico e misterioso.
E non serve nemmeno raccontare il bosco solo in queste due settimane. Che giustizia rendiamo ad un ambiente, uno dei pochi, che ancora dispensa benessere per noi umani?
Si parla tanto di riscoprire la Natura, di riconnettersi con la Natura.
Dal mio punto di vista questo percorso passa per forza attraverso esperienze personali da compiersi in solitaria o comunque non in gruppo.
Il motivo è molto semplice: più persone sono presenti e più prevarrà il lato relazionale tra simili a discapito di quello con l’ambiente.
Se non (re)impariamo a stare da soli, difficilmente acquisteremo quella sicurezza e quella consapevolezza necessarie per vivere proficuamente nella Natura.
Ed è così che in un sabato pomeriggio giungo a Gran Burrone. In una giornata dal sapore quasi estivo, i raggi di un sole calante illuminano le chiome dei faggi in un tripudio di colori caldi e rassicuranti.
Gli scarponi mangiano il terreno con sicurezza, mentre gli occhi assorbono questi ultimi refoli di vita prima del declino inesorabile verso l’inverno.
Esausto per la lunga camminata mi sdraio in quella che pare essere una piccola radura.
Sopra di me un soffitto multicolore. Lentamente le foglie cadono dalle chiome e volteggiano si accumulano intorno a me.
E’ onestamente un momento bellissimo che raramente capita di vivere. Oggi è toccato a me.
Domani sarà pioggia ma è l’oggi che conta.
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