L’altro giorno mi sono ritrovato nel folto del bosco da solo. Amo quella sensazione di perdersi nel bosco nonostante la via di uscita sia sempre a portare di mano. Pur sforzandomi non riuscivo a sentire nulla tanto che mi sono chiesto se fossi divenuto sordo. Mi sono fermato, ho lasciato scivolare lo zaino dalle spalle e mi sono seduto sul tappeto di aghi che ricopriva l’intero sottobosco.
Ho provato ad aguzzare l’udito ma l’unico rumore percepito è l’ormai immancabile ronzio nelle orecchie che da qualche anno mi accompagna.
Sentivo l’umido attraverso i pantaloni salirmi fin dentro le ossa. Incredulo di tanto silenzio ho cominciato a chiedermi dove fossero finiti tutti gli animali. Nemmeno un uccello ad allietare questo silenzio con il suo canto. L’unico elemento di disturbo ero io, con il mio passo goffo e la mia ingombrante figura tutto tranne che agile. Non era un bel bosco sono onesto.
Era come una vecchia cattedrale ormai in disuso e destinata a sgretolarsi sotto il logorio del tempo. Ho trovato un abete che ha catturato la mia attenzione e mi ci sono seduto di fronte osservandolo. Aveva le radici possenti ben visibili che affondavano nel terreno certo, ma quello che ha catturato la mia attenzione, erano una serie di radici più piccole che come dal terreno spuntavano andando ad abbracciare in una morsa l’intero albero. Prigioniero della terra.
Sono rimasto a guardarlo, affascinato dalle contorsioni delle sue radici. Poi, come sempre, mi sono sdraiato a testa in su a guardare in alto. Un riflesso istintivo che ho, un riflesso di evasione da questa prigione. Questo perdersi nel bosco per evadere, una necessità, un sintomo del malessere che cova dentro di me. Ho guardato in alto ma questa volta non ho trovato il solito cappello intrecciato di rami e fronde, no, ho trovato solo un’accozzaglia indistinta di rami. Deluso mi sono alzato, ho rimesso lo zaino in spalla e lentamente ho continuato ad inoltrarmi nel bosco nella speranza di incontrare altro in grado di incuriosirmi.
Niente, solo morte.
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