Ultimamente le questioni che ruotano intorno al tempo mi assillano parecchio, ne scrivo anche nell’ultima uscita della mia newsletter.
Nulla di preoccupante, però sono piuttosto preso dal capire come il tempo sia funzione di un certo tipo di fotografia.
Come sempre le domande si accumulano e le risposta latitano.
Se parto dall’idea che l’atto del fotografare è solo l’ultimo passaggio di una serie di eventi, è necessario fare diversi passi indietro e prendere la questione alla lontana.
Al netto dei cliché e della frasi fatte sul tempo, sulla modernità, ecc. quello che i media moderni e la tecnologia impongono oggi è la soppressione dello spazio, siamo “essenzialmente tutti più vicini“. Il risultato è che tempo e spazio implodono nel qui ed ora (e qui scusate ma il primo quesito che mi sorge è come si relaziona la Mindfullness del qui e ora con questa implosione? Va beh la risposta la lascio ai posteri).
E’ come se i media fossero un buco nero che attira con la sua enorme forza gravitazionale qualunque cosa. Tutto si riduce alla vicinanza, è come se un enorme imbuto convogliasse in un unico punto il mondo intero.
Cosa c’è fuori dal pertugio dell’imbuto? Ed io come faccio a trovare un equilibrio in questo contesto?
Essere sotto il costante stimolo dei media, induce uno stato di perenne agitazione, un vibrare malsano che produce poi un movimento insulso, senza una vera meta, ma solo con l’illusione di percorrere un cammino di senso.
Uno dei risultati di questo processo, è questa sensazione di essere avulso dal mondo pur vivendoci dentro.
Non c’è un luogo o un tempo capace di portarmi quella sensazione di pace, di stasi, di indugio che produce una bolla di tempo utile.
Per me è difficilissimo prendere le distanze da questa frustrante necessità di fare sempre qualcosa, come se tutto questo fare fosse funzione del giudizio che il mondo esprime su di me.
E se il tempo avesse un profumo?
Una della cose che mi chiedo è che se il tempo attuale è quello della vicinanza, dell’azzeramento della distanza spazio/tempo, non è allora che la lontananza, per opposto, potrebbe aiutarmi a rallentare? E recuperare quel senso di me? E rendermi nuovamente unico quale in effetti io sono?
Può essere quindi la contemplazione una strategia per imparare a rallentare (ridurre l’accelerazione) e quindi a (re)imparare ad indugiare e quindi ridurre la dispersione?
In tutto questo bailame di domande si inserisce un libro molto interessante anche se fatico a trarne delle conclusioni dal titolo “Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose” di Byung-Chul Han.
Forse la vera essenza di questo libro, quello che più si è infilato sotto la mia pelle sta già nel titolo in quel “l’arte di indugiare sulle cose” e in quel termine “indugiare” che racchiude tutta una serie di pratiche che intuitivamente vedo legate ad un certo tipo di fotografia.
Una fotografia riflessiva, una fotografia espressione dei sentimenti che scorrono nelle mie vene, una fotografia che mi rappresenti.
Adesso cosa si fa?
Nulla, si continua a camminare, sudare, porsi domande e cercare risposte.
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