Penso che una fotografia per essere interessante, per incuriosire un osservatore, debba contenere degli elementi non immediatamente identificabili che portino ad indugiare ed indagare all’interno dell’immagine che si sta guardando.
Con questa premessa è evidente che per ottenere questo risultato la fotografia necessiti di una dose di ombre che fungano da elemento di mistero, ma non solo. Tecnicamente infatti, l’unico modo per rendere la tridimensionalità del mondo nel quale viviamo su di un supporto bidimensionale è l’utilizzo appunto delle ombre.
Non solo, ma è proprio con la fotografia che la rappresentazione delle ombre trova la sua giusta collocazione. Se prendiamo in considerazione ad esempio The Pencil of nature, pubblicato tra il 1844 ed il 1846, oltre ad essere il primo libro fotografico in assoluto, altro non è che una raccolta di fotografie che indagano sulle ombre. Si tratta di fotografie che ritraggono oggetti all’aperto sfruttando esclusivamente, come dice l’autore, “la sola azione della luce su fogli sensibili“.
Una delle poche cose certe è che se c’è luce c’è anche ombra.
“Ciò che la fotografia cattura è l’ombra
che il tempo proietta nell’immagine,
l’istante in cui il reale brilla prima di sparire per sempre”
Il gioco dei chiaro-scuri, sopratutto nella fotografia in bianco e nero, ma anche in quella a colori, è essenziale per ridare almeno in parte un senso di profondità, di consistenza alle immagini catturate.
Senza le ombre tutte le fotografie sarebbero essenzialmente piatte.
Faccio queste considerazioni perché il leit motiv di questi anni invece va esattamente nella direzione opposta. Penso alle migliaia di immagini che vengono pubblicate ogni giorno, anche da testate autorevoli, nelle quali il paesaggio viene svilito ad una semplice tavolozza di colori iper saturi senza la benché minima corrispondenza con la realtà; fotografie che ottengono immediatamente il plauso della folla, fotografi che scalano le classifiche di gradimento, il tutto in una rappresentazione del paesaggio sempre meno attinente alla realtà e sempre più all’immaginazione.
Se poi ci fermiamo un attimo a pensare al mantra della fotografia del paesaggio che recita: golden hour la mattina e golden hour alla sera, e pensiamo a quella luce radente che disegna ombre lunghissime, a volte più marcate di altre, io mi immagino quelle ombre come un elemento denso, come una parte viva della fotografia, come parte integrante del mio racconto e del paesaggio che sto vedendo con i miei occhi e che sto cercando di rappresentare il più fedelmente possibile. E proprio in un’ottica di rappresentazione veritiera del paesaggio, dal mio punto di vista, ha veramente poco senso districarsi in iperboli digitali in post produzione per “tirare fuori” quello che naturalmente sarebbe celato. A che pro?
Lo chiedo a voi, sono sinceramente interessato a capire che tipo di visione porta a schiarire dove sarebbe scuro, porta a rendere visibile il tutto anche là dove la luce a fatica arriva.
Siamo veramente diventati così pigri da non concederci il piacere, ed il tempo, di leggere una fotografia e rischiare di non capirla? Forse questo appiattimento, questa necessità del tutto e subito figlia di questa società superficiale ha corrotto irrimediabilmente i cuori e le menti non tanto degli osservatori quanto degli autori.
Questa incapacità di accettare la fatica, il fallimento e la rinuncia getta ombre veramente lunghe su questa società e sulla direzione nella quale siamo diretti. Ombre molto più buie di quelle disegnate dalla Natura.
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