L’auto batte l’asfalto da ore. Prima superstrade, poi, dopo qualche svincolo, le statali ed infine le provinciali. Strade dritte come righelli, deliminate da staccionate che paiono non finire mai. Il cielo sopra di noi è un mare compatto di nubi grige. Un ovatta cupa che preme verso il basso schiacciando l’aria gelida di questo inverno al suolo. Non c’è vento. L’aria è immobile. La temperatura è consona a queste lande disabitate.
Il nostro viaggio verso il nulla continua. Nel caldo tepore dell’abitacolo non perdo di vista il paesaggio che scorre fuori dal finestrino. Non penso molto. Sono semplicemente assorbito da queste cromie così nette e decise. Un bianco e grigio secco che mi penetra nell’animo. So già che farà male. Tanto male.
Sono passate 6 ore e finalmente pare che il viaggio in auto sia terminato. Scendo dall’auto e vengo subito aggredito dai morsi del freddo. Laggù in fondo alla mente, nell’angolo non so bene se destro o sinistro, qualche dubbio cerca di farsi strada.
Non c’è molto tempo da dedicare a queste seghe mentali. Mi guardo intorno un po’ spaesato cercando di farmi un’idea di dove siamo. Semplicemente impossibile.
La strada fa una curva verso destra e continua verso il nulla. Alle mie spalle, da dove siamo arrivati, il nulla. Non ci sono molte alternative. Il resto del viaggio sarà a piedi.
Recupero gli stivali, indosso le mie solite calze che mi accompagnano ad ogni trekking. lo zaino fotografio è già in spalla. Gli uomini stanno scaricando i viveri per i prossimi giorni dal pickup, cibo in scatola, pane in cassetta, tutti prodotti semi lavorati pronti giusto per una cottura veloce ed ovviamente un’abbondante riserva di lattine di birra che temo sarà l’unico liquido bevibile per i prossimi giorni.
Sono circondato da alberi. Non so se si tratti di una foresta o semplicemente di un boschetto. Lo sguardo non riesce ad andare oltre il muro di tronchi che costeggia la strada. Solo bianco e grigio.
Lentamente ci incamminiamo addentrandoci in questo folto. Rimpiango subito di non essermi finto storpio ed usare quindi il quod per il resto del tragitto. Apro io la pista nella neve fresca che mi arriva al ginocchio. Una fatica immane. Come sempre, come ogni volta che inizio un cammino e che le gambe cominciano ad urlare implorando il divano, si accende una lampadina in testa. E’ singolare come ogni volta mi ponga la medesima domanda: “ma chi me lo ha fatto fare?”. Domanda che non trova mai un’adeguata risposta, ma che è seguita da ulteriori elucubrazioni del tipo: “va beh abbiamo già fatto abbastanza si può anche tornare indietro.”. E’ una lotta senza quartiere contro me stesso, in un susseguirsi di domande e risposte, pensieri e considerazioni.
Un passo dietro l’altro apro la pista tra i tronchi di betulla. Solo bianco e grigio.
Bestemmio contro ogni chilo in eccesso che mi sta zavorrando, mentre il cuore fermo in gola sbatte in ogni direzione cercando uno spazio che non trova. Del resto non gli servirebbe più spazio ma solo qualche chilo in meno, beh qualcosa in più di qualche chilo, ma tantè che la mia condizione è questa, un quasi quarantenne al limite dell’obesità piantato su di una sedia davanti ad una scrivania 10 ore al giorno.
Potrei tranquillamente vincere le olimpiadi di dattilografia ma ahimè questa attività, oltre a non essere riconosciuta come sport, è assolutamente inutile ai fini del dimagrimento.
Finalmente, dopo una mezzora di sbattimento, il terreno lentamente si ammorbidisce regalandomi quell’orizontalità di cui il cuore ha tanto bisogno. Sono sudato come un cavallo al termine di un galoppo. Posso finalmente concedermi qualche divagazione guardandomi intorno. Sono immerso in una foresta di betulle, non c’è niente altro. Neve a terra, alberi ovunque. Ci addentriamo nel folto della foresta, l’atmosfera è a dir poco surreale. Ogni tanto mi fermo ad ascoltare. So che la stagione non permette di avere chissà quale fauna, ma insomma non si sa mai. Silenzio. Ascolto. Silenzio.
Non ci sono altre alternative che continuare. Un passo dopo l’altro, uno sbuffo dopo l’altro. Intuisco che la sera è vicina, anche se gli occhi si sono gradualmente abituati alla penombra è chiaro che tra poco sarà buio. Sarà bene non tergiversare anche perchè nessuno ha delle torce.
Getto uno sguardo alla mia sinistra e in fondo alla scarpata vedo un torrente. L’acqua si muove a rilento con le sinuosità tipiche di un rettile. In parte è ghiacciato ma dove l’acqua ancora conserva il suo stato liquido appare come una pozza nera senza anima. Fa quasi paura guardare quell’acqua, mi immagino come deve essere la sua morsa gelida intorno alle gambe. Un brivido mi squote al pensiero di scivolarci dentro. L’acqua è l’elemento più lontano dalla mia persona. Ho sempre avuto paura del mare, della piscina, dell’acqua in generale. Ogni volta che i piedi cominciavano a perdere la certezza dell’appoggio, una sensazione di panico dilagava dal basso verso l’alto fino a raggiungere la gola come una mano di uno strangolatore. Con gli anni ho mitigato queste sensazioni mortali, ma rimane comunque un elemento estraneo per me.
Ripenso agli inutili corsi di nuoto ed a quella onnipresente ineguatezza ogni volta che con gli amici si andava in piscina.
Assorbito da questi inutili pensieri vago in questa foresta disabitata. Il buio è qui. Una spettrale luce azzurrognola domina i pochi spazi vuoti non occupati dagli alberi. Penso che questo sia un posto stupendo, ho visto solo alberi e neve, ma tantè che mi sono bastati per innamorarmi.
All’improvviso eccola qui. Quasi senza accorgermene sono arrivato alla capanna, che qui in gergo viene chiamata cabin, ma il senso è questo. Ho veramente tanto freddo, il sudore profuso durante la salita ormai si è asciugato sulla pelle e tremo nell’ombra della notte che incombe.
Inutile tergiversare guardandosi intorno, oramai la vista non riesce a spingersi oltre il metro di distanza. Entro nella capanna. Una candela su di un tavolo illumina i contorni di un ambiente spartano, fa freddo, forse come fuori. Scarico lo zaino dalla schiena e subito cerco un cambio. Via giacca e maglione, via la maglietta fradicia. Il mio corpo accaldato fuma in questo ambiente gelido. Rovisto ansioso nello zaino e finalmente trovo una maglietta di ricambio. L’impatto con la pelle è quanto di meno piacevole si possa immaginare, del resto ogni cosa contenuta nello zaino ha la stessa temperatura esterna, mi consolo pensando che almeno è asciutta. Non ho altri maglioni a parte quello che mi sono tolto quindi non ho altra scelta che indossare quello. Un brivido mi assale e rapidamente si trasforma in un tremolio continuo. Ho solo un pensiero fisso in testa: caldo, voglio caldo!
Mentre attendo impaziente che qualcuno accenda la stufa, mi guardo intorno incuriosito. Il cabin è piuttosto spartano, due stanze, di cui una soppalcata, nella prima dove tra l’altro è presente la stufa, una lunga e stretta finestra pare essere l’unica fonte di luce naturale.
Sbircio fuori ma è completamente buio. Le pareti non mi ispirano particolare calore infatti si tratta di tronchi impilati uno sull’altro e coibentati alla meno peggio. Sotto la finestra una panca ed in centro un unico tavolo e qualche sedia. In un angolo un vecchio lavandino sul quale sono disposti bicchiere e piatti. Nell’angolo, appese ai tronchi, fanno bella sfoggia una serie di padelle di un colore che nella penombra delle candele non preannuncia nulla di buono. Proseguo l’esplorazione di quella che sarà la nostra casa per i prossimi giorni e scovo l’angolo del cacciatore ovvero una serie di ganci ai quali sono appesi almeno una decina di cappelli diversi tra loro. Da caccia, a tesa larga, semplici copricapo. Mi pare di capire uno per ogni occasione. La seconda stanza ispira ancora meno della prima con un’unica finestrina ed una serie di panche a perimetro del muro. Mi auguro solo di non dormire qui.
Qualcuno ha finalmente acceso la stufa ed i più freddolosi si riuniscono intorno per cercare di riscaldarsi.
To be continued…
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