Ho da poco aggiunto alla mia libreria il libro “I monti e il cielo – itinerario paesaggistico fra Civetta e Marmolada“. Un volume a corredo di una mostra tenutasi a Caprile nell’estate del 2004.
L’introduzione alle opere pittoriche in mostra, è composta da una serie di componimenti di vari autori tra cui scopro Domenico Rudatis.
Raramente mi “agito” per queste introduzioni più spesso dovute che non sentite. Con Rudatis ho ricevuto un pugno nello stomaco!
Dopo aver terminato il suo scritto ho dovuto immediatamente rileggerlo per essere sicuro di aver capito bene le parole che nero su bianco avevo davanti.
Un’emozione, un trasporto che pochissime volte ho trovato in un testo scritto. Leggere queste righe mi riporta istantaneamente sulle rive del lago di Alleghe mentre l’incendio della Parete si consuma instancabilmente giorno dopo giorno.
Oggi, in questa prima domenica di giugno, voglio condividere con vuoi un passaggio del suo scritto che mi ha definitivamente annientato per capacità espressiva e descrittiva.
Quando il sole volge dietro la Marmolada poderosa e grave per posarsi nel suo letto di orizzonti infiniti, e il crepuscolo diffonde nella valle una luce strana, che dà un vivo risalto alle note chiare del paesaggio, non avendo il potere di addentrarsi nella fitta e oscura trama degli abeti, una dolce malinconia piena di soavità e di bellezza avvolge tutte quante le cose e insolite armonie di luci e di colori creano nuovi accordi tra quelle immutabili forme.

Sotto l’assillo del tempo la natura raccoglie e riunisce tutte le sue forza di espressione in una indefettibile promessa di ritorno.
Penetrata dagli ultimi radiosi sguardi solari la pallida dolomite ha quasi un fremito di vita, s’imporpora e trascolora prodigiosamente, e tutte le mura, le torri, le guglie cominciano a risplendere come avvolte d0aurei rivestimenti d’inesprimibile magnificenza, mentre negli angolo e nelle rientranze lievi ombre si riverberano di un bel viola e di azzurro.

Il tramonto sulla Civetta per l’orientamento e la levigatezza della parete ha un fulgore più intenso che su certe altre Dolomiti, non è così roseo e delicato, non ricorda quello sul Catinaccio, il famoso Giardino di Rose (Rosengarten) di Re Laurino che vi nascose la Principessa Similda e per renderlo invisibile di giorno e di notte lo pietrificò tutto, ma nell’incantesimo avendo dimenticato i crepuscoli, in cui giorno non è più e notte non è ancora, in quegli istanti il roseto riappare rosseggiando vividamente.

Allora invece le rupi della Civetta non sembrano un altro fantastico giardino di rose, ma formidabili castella stregate dove occulti e possenti difensori, dalla sommità delle cuspidi e dalle merlature elevatissime, rovesciano torrenti d’oro fuso giù per le interminabili muraglie, corazzandole di roventi armature dorate.
Nel fondo della valle la strada s’allontana bianchissima lungo la riva del lago. Le case del paese biancheggiano singolarmente sullo sfondo sempre più cupo dei boschi, tra il verde dei prati circostanti che ha trasformato il suo tono prima caldo e brillante in quello ora più morbido e intenso; e così chiare esse appaiono come se da poco tempo avessero tutte riacquistato la candida veste in cui si converte la roccia purificata dal fuoco sacrificatore.
L’acqua della Zunaja, accolte insieme quelle del Ru de Porta, del Ru d’Antersàss e di tanti piccoli rivi diversi che solcano le basi della Civetta, limpida, placida e impoverita, il sole estivo avendo già consunto i nevai e seccate le piccole fonti montane, affluisce nel lago attraversando il ghiareto che là ampio s’allarga ed ora spicca come un nudo campo di marmoree candidissime rovine frantumate e livellate da un ciclope distruttore.

Il lago segue incantevolmente tutti i prodigi del cielo e della rupe, ha tinte smaglianti, tonalità scure e profonde, riflessi d’argento, d’oro, di fiamma, iridescenze mutevoli e tremolii brillante di luce, che la brezza fa nascere increspandone la superficie mirabile quasi volesse animare maggiormente il tripudio delle luci e dei colori; pare, come nella leggenda, che l’arcobaleno spaccato dalla potenza di magiche arti, sia disciolto nel lago le cui acque, conservandolo eternamente, lasciano scorgere attraverso il velo cristallino tutte le innumerevoli e stupende colorazioni.
Poi la luminosità crepuscolare impallidisce sempre più nella vallata, gradatamente le tinte si fondono e i contorni sfumano vaporosamente e i rilievi si attenuano.
Nell’effusa trasparenza degli eccelsi spazi le rupi, arroventate dal regale incendio del sole, che nelle frenesia dell’abbandono, come svuotando tutti i forzieri celesti, vi frange i suoi raggi in una profusione inesauribile di porpore, d’ori e di gemme scintillanti, s’accendono di tutte le luci e avvampano e rifulgono con splendore incomparabile.

Ma il tempo non sosta nel sublime addio dell’astro morente, non s’arresta l’eterno divenire delle cose. Le penombre silenziose salgono lente su pei dirupati basamenti delle torri e delle guglie donde l’incendio man mano si ritrae lasciandole rivestite come di cenere d’argento antico.
S’addensa l’ombra fredda invadente, e dovunque si estende la sua livida tristezza, circonfuse di uno strano pallore spettrale sembrano dileguarsi in un velario d’indaco d’opale e di grigio le superbe architetture dell’immensa acropoli, i torrioni settentrionali appaiono ormai quali incerte diroccate rovine cineree e fumanti dopo epiche lotte, e solamente il supremo fastigio della vetta investito da un’ultima rutilante esplosione di gemme arde ancora per qualche attimo, come vivissima fiamma, nel tenue chiarore del crepuscolo quasi spento, e tutto alfine vanendo, la natura si addormenta nella quiete infinita dell’oscurità crescente.
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