Ho da poco terminato di leggere un’interessante libro di Annibale Salsa dal titolo “I paesaggi delle Alpi – Un viaggio nelle terre alte tra filosofia, natura e storia”.
Si tratta di un saggio che condensa in poco meno di 160 pagine l’analisi storico/culturale dell’arco alpino, ponendo un accento forte sul tema del paesaggio. Per Salsa “il paesaggio è sempre culturale. Non esistono paesaggi naturali in senso stretto. L’espressione paesaggi naturali è una contraddizione in termini, un ossimoro. Perciò va scartata. Farne uso oggi, con riferimento ai contesti antropizzati in cui viviamo, significa compiere un’ingenuità cognitiva.“.
Io mi permetto di dissentire, almeno in parte.
Sono concorde sul fatto il paesaggio sia espressione della cultura dei singoli da una parte e delle comunità dall’altra. Il singolo vive e rappresenta il paesaggio nel quale si muove secondo “i paesaggi” che ha maturato nella sua esperienza di vita. Di riflesso la comunità di cui fa parte a sua volta vive e plasma i paesaggi nei quali dimora secondo le proprie necessità e visioni. Tutto questo a mio parere determina un paesaggio figlio della cultura.
Affermare però che i paesaggi naturali non esistano ritengo sia una forzatura oltremodo pericolosa in primis perché passa il concetto che il paesaggio non esista senza l’intervento o l’interpretazione dell’uomo.
Io penso che di fronte ad una porzione di territorio più o meno vasta nella quale prende forma un paesaggio, l’occhio e la mente dell’osservatore effettuano una selezione di ciò che si sta guardando. Se è vero che la selezione avviene attraverso un filtro culturale proprio dell’osservatore, è anche vero che se il paesaggio “inquadrato” non contiene nessun elemento antropico, dal mio punto di vista, si può parlare tranquillamente di paesaggio naturale.

Partendo quindi dal presupposto che il paesaggio sia sempre culturale è evidente come il paesaggio naturale non possa esistere.
Personalmente faccio molta fatica ad accettare questo pensiero perché presuppone ancora una volta che al centro dell’universo ci sia l’uomo e che solo grazie alla sua opera sia possibile gestire in maniera corretta le cose di questo pianeta.
Tutto questo antropocentrismo non ha fatto altro che traghettarci, con molte comodità lo ammetto, verso un baratro che ogni giorno appare più vicino.
In un contesto di questo tipo è evidente che forme estreme di contrapposizione che promuovano “la natura incontaminata” come unica forma di salvezza non tardino a manifestarsi. Le considero come le ultime urla di un agonizzante ormai giunto alla fine dei suoi giorni.
Ancora una volta le parole chiave sono sviluppo e crescita in un contesto antropico generale che presenta un’orizzonte a tinte fosche.
Nessuno credo auspichi, come dice Salsa, una wilderness di ritorno, sia per chi frequenta l’ambiente saltuariamente sia chi è costretto a muovercisi quotidianamente. Ma è altresì evidente come il modello attuale sia giunto ad un punto vicino al collasso.
Un modello nel quale il paesaggio viene prima immaginato e poi mercificato e svenduto in funzione esclusivamente di una cultura del profitto.
La corruzione che questo modello ha imposto tramite promesse e lusinghe oggi è quanto mai difficile da estirpare.
Se il paesaggio culturale che plasma l’ambiente deve essere questo, beh io proprio non ci sto. Allora ben venga la wilderness di ritorno, anche se il termine mi fa sorridere, bene lo spopolamento, bene tutto quello che possa allontanare questa cultura da un’ambiente che tutti reputano tra i più fragili nel nostro continente.
Assistiamo oggi ad uno scontro epocale tra un modello, o una cultura, chiamatela come preferite, che ha elargito enormi profitti e benessere diffuso ad un numero incredibile di persone in un lasso di tempo estremamente corto. Per fare ciò ha intaccato in maniera irrimediabile moltissime aree di questo pianeta, compromettendo innanzitutto la nostra sopravvivenza.
Se dobbiamo pensare globalmente ed agire localmente, come dice Salsa, dobbiamo prima di tutto fare un esame di coscienza e riconoscere lo stato dell’arte che la nostra cultura ha prodotto. Anche nelle terre alte.
Senza un mea culpa sincero, senza un’apertura profonda verso un rinnovamento che stravolga l’attuale panorama mondiale e locale, senza un cambio di pensiero radicale, non ci sarà un paesaggio a cui far riferimento nel futuro prossimo venturo.
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