Ad inizio giugno si è tenuto il raduno presso passo Giau per dire nuovamente NO a questo assalto alla diligenza nei confronti delle Dolomiti.
In particolare, come del resto era ampiamento previsto, contro gli scempi che in nome dello sport e del carosello olimpico si stanno perpetrando ai danni dell’ambiente.
In questa eterna diatriba tra conservatori e progressisti possiamo tranquillamente affermare che sono quasi sempre i secondi ad uscirne vincitori con gli evidenti altissimi costi pagati dalla comunità in termini economici, identitari, culturali e ovviamente naturalistici.
Come ormai abbiamo detto innumerevoli volte, il paesaggio è prima di tutto espressione di una cultura.
In quesa equazione pare subito evidente un elemento di forte squilibrio dato proprio dalla nostra cultura, anzi sarebbe meglio chiamarla “non cultura”.
Infatti è paradossale come un popolo che è circondato dalla bellezza come forse in nessun altro luogo di questo pianeta, non abbia maturato una simbiosi con l’ambiente che lo circonda ed anzi, non perda occasione per piegare il paesaggio alle proprie necessità economiche.
Pare evidente che qualunque intervento umano sull’ambiente porti a deprezzare il paesaggio.
Questo con buona pace di chi fa del “valorizzare un territorio” il proprio mantra.
Oggi, con la scusa delle olimpiadi invernali, stiamo nuovamente devastando aree che non hanno minimamente bisogno del nostro intervento per sopravvivere, anzi è proprio per la loro sopravvivenza che dovremmo fare un passo indietro.
Ma se l’occasione fa l’uomo ladro, è evidente come questo evento sia irripetibile per quella famelica creatura, che nel nome del benessere altrui, è sempre pronta a mettere in moto la propria arte distruttrice.
Quando finalmente avremo modificato irrimediabilmente anche questo angolo di Dolomiti, magari alterando per sempre “un’inquadratura”, tra l’altro già antropizzata, assisteremo all’inevitabile bisogno di riposizionare la visione collettiva del luogo.
Lo faremo attraverso un flusso continuo a sconsiderato di nuove immagini che creeranno un nuovo immaginario del luogo.
Un nuovo modo di intendere, attendere, vivere il paesaggio nel quale avremo un nuovo elemento che per quanto “green” sarà comunque avulso dall’ambiente circostante.
E quel che oggi ammiriamo e decantiamo sarà per sempre perso.
Questo aspetto mi ha fatto riflettere profondamente sul tipo di fotografia di paesaggio che da qualche anno sto portando avanti.
Lo sforzo di eliminare dall’inquadratura quanto di antropico sia presente, mi ha permesso di produrre fotografie che raccontano un paesaggio che non esiste nella realtà, ma che è funzione delle mie necessità.
E’ la mia percezione culturale del paesaggio.
Un luogo nel quale essenzialmente mi reputo un ospite curioso che vuole memorizzare e tramandare un’idea romantica di paesaggio nel quale l’inevitabile passaggio dell’uomo appaia come una virgola in un racconto millenario.
In questo senso che di aver prodotto dell’ottimo materiale.
Ma adesso, forse è giunto il monento di ritornare con i piedi per terra ed ampliare il mio racconto con un nuovo capitolo.
I prossimi mesi saranno utili per ragionare e confrontarmi con chi vorrà condividere questa nuova fase per capire come muovere i prossimi passi.
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