E’ da diversi anni che lotto con l’annoso dilemma: andare in montagna o andare a fare fotografia (in montagna)?
Non ho mai trovato una risposta soddisfacente a questa domanda, tanto che spesso mi sono ritrovato fagocitato dalla necessità di fotografare quello che vedo a discapito magari dell’obiettivo che mi ero prefissato per l’uscita piuttosto che approcciare in maniera superficiale ed approssimativa la fotografia perchè non c’era abbastanza tempo per farla come volevo.
Capisco che sia un pensiero un po’ contorto, ma al momento è l’unico modo che ho trovato per esprimere questo disagio.
In questa campagna autunnale in Dolomiti ho però risolto alla radice il problema.
Come?
Semplicemente ho scordato, più o meno inconsapevolmente, a casa tutta l’attrezzatura fotografica.
Per un fotografo questa cosa è paradossale, ma è quello che è accaduto.
In questo modo mi sono ritrovato, o forse sarebbe meglio dire sono stato costretto, a dedicarmi al solo andare in montagna, cosa che non facevo da almeno 15 anni.
Il risultato?
Ho avuto modo di osservare e contemplare. Azioni che non passano certo attraverso il filtro della macchina fotografica, ma che sono comunque alla base della mia fotografia.
Un riappropriarsi di gesti offuscati da un’ingordigia fotografica spesso opprimente.
Certo, ho visto situazioni di grandissimo interesse che in alcuni casi mi hanno portato a mordermi la lingua, ma, invece che concentrarmi sul fotografare, mi sono concentrando sul sentire.
Non solo, ma aver lasciato indietro almeno 5 kg di attrezzatura ha trasformato lo zaino fotografico da un fardello a un fedele compagno di salita.
Improvvisamente le gambe sono rinate ed il cuore ha fatto il suo dovere.
Ma più di ogni altra cosa ho avuto nuovamente la possibilità di lasciare che la montagna si avvicinasse a me, toccandomi.
E’ un’esperienza che rifarei? Consapevolemente non credo, certo è che la sensazione di lasciarsi “un peso” alle spalle è senz’altro allettante…
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