4 luglio 2024
La notte in una qualche maniera è passata. Ho dormito forse 5/6 ore e va bene.
Fatta la colazione mi metto di buona lena ad organizzare lo zaino.
A prima vista le cose da mettere dentro sono veramente tantissime e mancano ancora casco, imbrago, ramponi e piccozza.
Provo una prima sistemazione ma tutto non ci sta. Svuoto un po’ la camel bag, tanto oggi devo fare “solo” un avvicinamento di 4 ore e due litri e mezzo dovrebbero bastare. Rinuncio al pile da usare in rifugio in favore di un layer caldo più sottile e meno ingombrante.
Pulisco la macchina fotografica ed i filtri, organizzo un po’ il mangiare e alcune medicine di ordinanza per poi accorgermi che ovviamente ho dimenticato alcune cose, non indispensabili certo, ma avrebbero fatto comodo.
Inutile rabbuiarsi.
Dire, anzi dirmi, come sto è impresa assai ardua.
Colgo la mia solita frenesia mista ad ansia tipica di ogni attesa che sta per terminare. Sono contento che l’avvicinamento di oggi sia lungo, ci sarà il tempo per entrare nel mood giusto, sempre che ci riesca.
La vera nota positiva è che la pioggia di ieri ha lasciato spazio ad un bellissimo sole estivo. La luce solare scalda letteralmente l’animo.
Controllo la webcam che inquadra nella direzione della salita e vedo solo un grande mare di nuvole. Meglio chiudere tutto subito.
Sono le 9, il ritrovo è tra circa 3 ore quindi ora mi sdraio sul divano nel tentativo di rilassarmi un po’.
Dopo non so quanti passaggi per il bagno, finalmente arriva il momento di partire.
Alle 12 in punto mi ritrovo con Michele.
Lo ritrovo carico e come sempre molto tranquillo, dote che lo contraddistingue sempre.
Mi riapproprio dell’attrezzatura che mi impresta: caschetto, piccozza, ramponi ed imbrago. Questa volta l’imbrago è diverso, più leggero e meno ingombrante, Michele me lo presenta come il “tanga”.
Provo far stare anche queste cose in uno zaino già strapieno. Con un po’ di fantasia aggancio un po’ di cose da una parte e un po’ dall’altra e sono pronto.
Ci avviamo lungo questo lungo sentiero, saranno circa 15 km, che ci porterà al rifugio che sarà il nostro “campo base”.
Si chiacchiera in quello che è un lunghissimo tratto di almeno 7 km in falsopiano. In fondo alla valle si stagliano in una luce accecante montagne bianchissime mentre al nostro fianco un fiume impetuoso porta a valle l’acqua di fusione dei ghiacciai.
Tutt’intorno è un tripudio di verde e di fiori.
Ci concediamo un veloce pranzo a bordo fiume prima di iniziare il vero e proprio sentiero che ci porterà al rifugio.
Ben presto abbandoniamo la copertura degli alberi e cominciamo a salire.
Di fronte l’imponente morena con quello che è stato un main event dello scorso inverno, ovvero una colata detritica di 5 km che si è staccata da un ghiacciaio, che ancora non si intravede, e che è scesa a valle portandosi dietro non so quanti milioni di metri cubi di roccia, neve e ghiaccio.
Non c’è nulla da dire, le proporzioni di quello che ho davanti non possono essere definite secondo i miei canoni.
Mi ritrovo come sempre a seguire il profilo delle sponde della morena che ogni volta mi suscita incredulità ed emozioni forti al pensiero non solo delle dimensioni ma anche delle forze in gioco in questo angolo di mondo.
Guardandomi intorno, ogni scorcio è una cartolina.
I rododendri in fiore in primo piano, il bianco dei ghiacciai appena sopra ed infine il tipico blu cobalto del cielo di luglio.
Nessuna nuvola all’orizzonte.
A tanta bellezza fa da contrasto la fatica immane di risalire un sentiero ostico e disseminato di pietre. Il peso sulle spalle comincia a farsi sentire e mi chiedo come farò domani a caricarmi nuovamente lo zaino sulle spalle.
Alle 16:50 arriviamo finalmente al rifugio. Quota 2584 metri.
Dire che sono sfiancato è poco, ma essere qui è già qualcosa.
Dopo una breve sosta in magazzino per stivare l’attrezzattura per l’indomani e recuperare le ciabatte messe a disposizione dal rifugio, sbrighiamo i convenevoli della registrazione.
“Domani dove andate?” “Facciamo il Piz Morteratsch.” “Ok, allora colazione alle 5” “No facciamo che è meglio fare la colazione alle 3 con quelli che vanno al Bianco”
La ragazza controlla la disponibilità nelle stanze e alla fine ci accompagna nel dormitorio nel quale più o meno tutti si sveglieranno alla stessa ora.
In effetti non ci avevo mai pensato non frequentando mai rifugi per fare scalate. Facendo in questo modo si evitare che chi deve partire tipo alle 5 si svegli prima del tempo.
Raggiungiamo il dormitorio e con mio sollievo ci becchiamo i posti letto in basso, l’idea di arrampicarmi sul letto a castello, non so perchè, ma non mi sconfinfera più di tanto.
Michele sceglie cortesemente di dormire con me anche se, in quanto guida, avrebbe un dormitorio riservato appunto alle guide.
Il nostro dormitorio si chiama Piz Roseg.
Ci sistemiamo, ovvero io svuoto completamente lo zaino buttando tutto sul letto.
Faccio una cernita di quello che domani lascerò al rifugio infilandolo in una sacca che mi sono portato dietro. Decido tra l’altro di fare a meno della borraccia ed affidarmi solo alla camel bag.
Mi sembra tutto troppo.
Troppa roba, troppo peso, troppo alto, troppo difficile. Troppo.
Manca ancora un’ora alla cena, fissata per le 18:30, e decidiamo di berci una birra in una delle sale.
La vista è superlativa, favorita poi da enormi vetrate, le montagne circostanti appaiono come terre lontane ed irraggiungibili.
Mi sento stranamente tranquillo. Nessuna ansia, nessuna paura. Strano, molto strano.
Beviamo la nostra birra parlando del più e del meno. Molto poco su quello che accadrà domani e forse è meglio così.
Faccio uno schizzo sulla moleskine del Piz Roseg che ho di fronte. Quella linea verticale che scende sinuosa si avvicina molto a quello che dovrei vedere e fotografare domani. Chi lo sa…
Arriva ora di cena.
La cena è un momento conviviale. Un crogiolo di genti e lingue diverse con un unico obiettivo comune: salire la montagna.
Io, di salire la montagna proprio ne farei a meno. I dubbi e soprattutto le preoccupazioni per l’indomani continuano ad assillarmi.
Al tavolo con noi siede anche una guida alpina ticinese con una sua cliente e quindi possiamo scambiare due parole in italiano perchè di altre lingue, io e Michele, non ne mettiamo insieme nemmeno mezza.
Il tempo sembra sospeso in questa attesa verso la notte e alla sveglia che ci attende domani.
Le nuvole cominciano ad ammassarsi sulle cime dei monti che circondano il rifugio e del tramonto che speravo di fotografare da quassù nemmeno l’ombra.
Alla 20 in punto viene servito, per chi vuole, il tè di marcia. Ovvero chi vuole si riempie quello che ha, borracce, bottiglie in plastica, camel bag e chi più ne ha più ne metta, con tè caldo.
Io salto perchè la camel che uso non è pensata per liquidi caldi quindi mi lavo i denti e alle 20:15 sono già in branda.
Dormendo vicino al finestrone del dormitorio passo i minuti in attesa del buio guardando le nuvole che sfrecciano nel cielo. Ho paura di dover salire in mezzo alle nuvole domani, sinceramente non ne ho molta voglia quindi continuo a scrutare il cielo.
Per il momento le nuvole sembrano molto alte, incrocio le dita.
Arriva Michele, anche lui sistema lo zaino. Ci accordiamo per svegliarci alle 2:50.
Lentamente arrivano anche gli altri ospiti del dormitorio: due ragazzi toscani, 2 ragazze che non ho sentito parlare quindi non so da dove vengano, ed altri 2 ragazzi, anche loro di provenienza sconosciuta.
Ultimi segnali acustici dei telefoni, qualche parola bisbigliata e poi cala il silenzio.
Da fuori arrivano le voci di chi domani mattina si sveglierà intorno alle 5, ha più tempo ovviamente per dormire.
Si alza il vento, lo sento bisbigliare tra le strutture del rifugio. Lentamente il cielo si pulisce e compaiono le stelle.
Io, infilato nel mio sacco letto, cerco di addormentarmi facendo meditazione ma l’impresa, perchè di impresa si tratta, risulta impossibile.
Trascorro le ore guardando il cielo stellato. Michele dorme e solo verso la mezzanotte si sveglia, ci scambiamo due parole sull’orario.
Qualcuno ogni tanto scende dai letti a castello per andare in bagno.
Una notte lunga, come quelle invernali nelle quali le prime luci dell’alba tardano ad arrivare.
Ahimè la zuppa della cena non è piaciuta particolarmente al mio intestino che continua a lamentarsi.
Alle 2:10 suonano le prime sveglie. Ormai ci siamo. Decido di fare un tentativo in bagno anche perchè in queste condizioni non sarei in grado di fare nulla.
Forza è ora di svegliarsi e di andare.
5 luglio 2024
Manca ancora un po’ all’ora della colazione così scendiamo in magazzino con tutto il nostro armamentario per stivare quello che non serve.
Mi siedo su di una panca ed ascolto i rumori intorno a me. La tensione è palpabile. Parole sommesse e mezze abbozzate fanno il paio con il tintinnio delle attrezzature: viti da ghiaccio, moschettoni, piccozze, ramponi… insomma tutta la ferraglia che servirà per affrontare la giornata odierna in “tutta sicurezza”.
Guardo le mani muoversi veloci fuori e dentro gli zaini. C’è un’urgenza non detta a parole ma espressa a gesti che indica che bisogna andare, non tra poco, ma adesso.
Finalmente è l’ora della colazione.
Siamo tutti qui, quelli delle 3 del mattino. Ci aggiriamo intorno al tavolo con gli ingredienti a disposizione. Io sono piuttosto indeciso. Scelgo di non rischiare ulteriormente e mi concedo solo una fetta di pane con burro e marmellata di albicocche ed una tazza di caffè.
Diciamo che è ora di andare.
Scendiamo nuovamente in magazzino, indosso l’imbrago, monto la pila frontale sul caschetto, controllo che i ramponi siano nelle zaino.
Con cura applico l’ormai consueto nastro adesivo sui calcagni e sui due mignoli dei piedi.
Infilo lentamente le calze per non staccare il nastro ed allaccio per bene gli stivali.
Lego i capelli alla meno peggio, indosso la giacca e il caschetto. I guanti per il momento possono aspettare.
Sono pronto.
Accendiamo le frontali ed usciamo nella notte. Sono le 3:15, si parte.
Come sempre la portata della luce che trafila dalle finestre del rifugio è limitatissima, la notte ed il buio inghiottiscono subito qualunque luce.
Non ho la più vaga idea di dove sia il sentiero, così seguo Michele che si incammina con passo lento.
La salita inizia subito a tirare.
Getto uno sguardo in alto, non vedo nulla se non coppie di luci che si muovono nel buio di chi ci precede.
Saliamo lenti e costanti fino ad un gradino che richiede una prima arrampicata, tra catene e fittoni nella roccia.
Superato questo impedimento guardo in basso ed ammiro la processione di luci che velocemente si muove a zig zag risalendo il costone.
A tratti ci facciamo da parte lasciando passare le cordate più veloci.
Scorgo alcuni volti illuminati dalle frontali. Sono espressioni decise, quasi affilate. Gli occhi fissi sui piedi, gocce di sudore sulla fronte.
C’è chi è già in maniche corte, anche io mi tolgo la giacca perchè la salita per quanto non sia così impegnativa, mette subito in azione il mio motore.
Ben presto raggiungiamo un bivio. A destra per il Bianco, dritto tutto il resto.
Noi teniamo la barra a dritta e proseguiamo soli nell’oscurità della notte.
Camminare in montagna di notte è come vivere una bolla spazio temporale. Non riesco a farmi un’idea di quanto tempo sia passato né di quanta strada abbiamo fatto.
Ho lo spauracchio della soglia dei 3000 metri che mi assilla. Ci saremo o manca ancora molto?
Finalmente dopo un’interminabile successione di zig zag arriviamo sul ghiacciaio.
Monto i ramponi, nel mentre Michele mi passa un capo della corda dove ha già fatto la prima parte del nodo che la fisserà al mio imbrago.
Infilo un capo nell’occhiello basso dell’imbrago e lo faccio uscire in quello alto, chiudo il nodo seguendo la corda.
Ecco fatto l’otto delle guide. Siamo legati, uniti, un tutt’uno simbiotico.
Infilo i guanti e impugno la piccozza.
I primi passi sulla roccia fanno stridere i ramponi poi arriva il rumore semi attutito del ghiaccio.
Cominciamo una lenta risalita del ghiacciaio seguendo in parte tracce già presenti.
Lentamente comincia a schiarire.
Mi guardo intorno e la forma delle montagne è chiaramente visibile. Non penso a nulla se non a respirare correttamente e mettere un piede davanti all’altro.
Cerco di tenere a mente uno dei consigli di Michele sul respiro: mai andare in apnea. Ci provo…
Dal nulla compare una persona che sta scendendo dalla direzione verso cui invece noi stiamo salendo.
Abbozziamo un saluto ma non arriva risposta. Il camminatore solitario si getta verso il basso venendo inghiottito dal buio.
Strana gente c’è in giro a quest’ora della notte…
Complice la temperatura notturna, la salita lungo il ghiacciaio risulta abbastanza agevole. Emergiamo da un budello proprio quando il sole illumina le prime cime.
Siamo dentro un catino glaciale enorme, davanti a me, leggermente alla mia destra, si staglia nettissimo il pendio lungo il quale so che dovremo salire.
Da qui non mi sembra granché, ma man mano che ci avviciniamo sembra diventare sempre più grande.
Giunti alla base di quella che viene chiamata Crasta da Morteratsch ci concediamo una sosta per uno snack: mezza mela e una mangiata di frutta secca.
Fa piuttosto freddo e come sempre prima dell’alba, tira un vento scomodo.
Attacchiamo il pendio ghiacciato e finalmente troviamo un ritmo stupendo. Sinistro, destro e piccozza, sinistro, destro e piccozza. Sembriamo una cordata vera, beh forse lo siamo.
Usciamo finalmente dall’ombra della montagna e veniamo accolti da un sole quasi accecante. Sono le 6:30.
E’ chiaramente visibile la traccia che ci indica la via.
Prima su, dritto per dritto, e poi quel traverso a sinistra che si intuisce più avanti.
Cambio guanti indossando quelli invernali perchè le folate di vento gelido sono importanti e non ho voglia di avere le mani ghiacciate. Le neve è ancora ottima, ma giunti sul traverso il cambio è netto. Qui le nevicate dei giorni scorsi hanno accumulato neve fresca, ad ora già umida per l’azione del sole.
Ad un primo tratto piuttosto lungo e quasi pianeggiante segue quello che sarà il calvario odierno.
La traccia scompare e cominciamo a risalire a sentimento.
Michele si fa carico di tracciare la via.
Ad ogni passo sprofondo nella neve fino al ginocchio. Impossibile trovare un ritmo qualsiasi.
Prima un piede, poi l’altro, poi affondo la piccozza fino alla picca e mi tiro su. Spesso la forza esercitata cercando di fare un passo mi fa sprofondare ulteriormente e devo fermare Michele.
Più che il cuore, che al momento si sta comportando egregiamente, i polpacci non ne hanno più.
Ogni tre passi devo fermare Michele per rilassare le gambe.
Stop.
Vai.
Sono piuttosto scoraggiato e si fa strada il dubbio di come riusciremo a tornare indietro con tanta neve su questo pendio.
La fatica comincia a prendere il sopravvento sulla mente e sento sulla punta della lingua le fatidiche parole: “Michele non ce la faccio, torniamo indietro”.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Getto lo sguardo in alto e il pendio non accenna a diminuire né a spianare.
Quasi allo stremo delle forze finalmente ritroviamo la traccia già battuta. La neve tiene un po’ di più e nonostante sia sfiancato continuo la salita.
Non riesco a capire dove dobbiamo andare. La cima non si vede. Siamo troppo sotto quindi non c’è altra strada se non salire ancora.
Finalmente da verticale, il pendio diventa un enorme panettone. Posso respirare.
In un tripudio abbacinante di luci e biancori usciamo dalla salita e alla mia sinistra la vedo, ecco perchè sono qui.
Ho visto decine di foto, ma adesso è qui davanti ai miei occhi.
Sono le 8:15. Abbiamo impiegato circa 5 ore arrivare qui.
Mi guardo intorno e una lingua di neve intonsa scende verso est, mi sembra una buona posizione da cui fotografare.
Chiedo a Michele se posso scendere lungo questo tratto e lui mi segue.
I gesti si fanno come sempre automatici. Faccio qualche passo e guardo davanti a me, non va ancora bene.
Scendo ancora, fin dove il finto senso di sicurezza che percepisco mi permette di farlo. Non sono proprio perpendicolare alla cresta ma questa inquadratura mi soddisfa.
Appoggio lo zaino nella neve, prendo il cavalletto e con il gesto che ormai è diventato consueto, apro le gambe a triangolo e lo posiziono.
Sento le lacrime salirmi agli occhi, sono emozionato. Mai avrei pensato di arrivare in questo luogo per assecondare una mia visione fotografica.
Ricaccio le lacrime in fondo allo stomaco e mi concentro su quello che devo fare.
Apro il retro dello zaino ed estraggo la macchina fotografica. Con questa luce i filtri non servono, monto quindi il paraluce per evitare spiacevoli flare, mi abbasso gli occhiali e cerco l’inquadratura.
Un paio di scatti di “riscaldamento” per controllare la luce e poi inquadro.
Orizzontale e verticale.
Stretto e largo.
Ecco qui, 5 ore di salita per 10 minuti di scatti.
Metto via l’attrezzattura e ci dirigiamo verso la cima. Giusto qualche decina di metri e ci mettiamo a sedere sulle rocce scoperte dalla neve.
Non è un brutto posto per fare uno snack ci diciamo.
Ci concediamo giusto 10 minuti per il “pranzo” per poi rimetterci in cammino.
I ruoli si invertono, io davanti e Michele a controllare dietro.
Comincio una lunghissima discesa seguendo le tracce che abbiamo lasciato all’andata. Il bruciore ai polpacci viene ben presto sostituito dal bruciore ai quadricipiti.
Cercando di tenere a bada i timori maturati durante la salita, cerco di scendere il meno rigido possibile. Michele mi conforta spronandomi ad avere fiducia, scendiamo in un catino abbacinante ormai rovente e sudiamo copiosamente.
Sosta, via la giacca, cambio di guanti e si riparte di nuovo.
In un’oretta siamo nuovamente alla Crasta da Morteratsch, ripiombiamo nell’ombra e per una mezz’ora buona si respira.
Il ghiaccio tiene ancora e riguadagnamo il plateau del ghiacciaio Tschierva.
Sosta d’obbligo per mangiare e bere qualcosa.
Il mondo è un immenso bank biancastro. Vietato togliersi gli occhiali per non rimanere accecati.
La neve sta mollando e a più riprese le gambe sprofondano fino al ginocchio mentre i ramponi grattano la superficie ghiacciata sottostante invisibile.
Sento arrivare il calo di tensione. Le gambe sono piuttosto rigide e mi sembra di essere uno zombie a passeggio in una terra di nessuno.
Dopo quella che pare un’eternità la neve e il ghiaccio finiscono. Ci spogliamo.
Via imbrago, ramponi, piccozza. Mi spoglio e mi cambio la maglietta invernale che ha svolto benissimo il suo lavoro ma adesso è estate rovente e indosso quanto di più leggero ho a disposizione.
Altro snack seguito da qualche minuto di riposo.
Ripartiamo in quella che è una discesa scomoda ed irta di sassi lungo un sentiero che a zig zag scende deciso verso il rifugio.
Non ho nessun ricordo di quello che sto calpestando. Salire al buio di notte ha dei vantaggi perchè non hai nessun punto di riferimento e quindi il tempo assume un valore relativo, ora che invece vedo ogni anfratto, ogni pietra, ogni scalino sembra non finire mai.
Finalmente arriviamo ai passaggi con catena. Sul primo sbaglio il pendolo e quasi alla fine scivolo perchè sbilanciato. Poco male, ci lascio solo il palmo della mano sinistra, giusto una sbucciatura.
Sono stanco oltre ogni limite.
Ecco l’ultimo passaggio complicato, l’ultima catena. Mi faccio guidare da Michele che dirige i miei piedi e se dio vuole compare finalmente il rifugio.
Gli ultimi passi sono un susseguirsi di inciampi e allucinazioni di birre ghiacciate.
Giungo al rifugio e un moto di emozione mi sale di nuovo dallo stomaco.
Ce l’ho fatta. Sono ancora vivo. Lascio che gli occhi si bagnino, vorrei innaffiare questo terreno arido con le mie lacrime ma proprio non ce la faccio.
Butto giù ed entro nuovamente nel magazzino del rifugio.
Non pare nemmeno quello che questa mattina abbiamo lasciato. Tutto è in ordine ed una doppia fila di ciabatte in plastica aspetta i prossimi alpinisti che forse oggi o domani o quando sarà si presenteranno qui carichi di aspettative per quelle montagne che tanto desiderano scalare.
Beviamo una birra e dopo un tempo che pare essere clamorosamente breve ci rimettiamo in cammino.
Mancano ancora 15 km alla macchina.
Il rientro, durato circa 4 ore, ha il sapore di un calvario senza fine. Ho agognato un elicottero che mi prelevasse risparmiandomi il supplizio di questa ennesima fatica.
In verità però non lo avrei mai accettato, ho strinto i denti, ho ascoltato i dolori delle ginocchia e dei piedi, l’amico trigger nella scapola, il collo irrigidito.
Difficile dire come mi sento. Sicuramente mi sento sfiancato, spossato, spiaggiato.
Sono soddisfatto anche se non riesco a dedicare molti pensieri ed emozioni a quello che ho realizzato oggi.
Voglio solo buttarmi sul letto e dimenticare tutto.
Basta montagna per un po’.
No dai, solo fino a domani…
2 Comments
Ho letto tutto quasi in apnea. Ho condiviso la tua stessa fatica e le tue stesse paure.
Ora sono stanchissimo come se avessi fatto quest’impresa insieme a te.
Scrivi da Dio, sai.
Ti ringrazio Sergio. Sono contento di essere riuscito a far passare attraverso questo diario alcune delle sensazioni ed emozioni che ho provato.
Grazie di aver dedicato il tuo tempo a questa lettura.