14 giugno 2024
Come da programma la giornata si annuncia grigia ma almeno il meteo non prevede pioggia per tutto il giorno.
Colazione con pane, burro e marmellata. Un caffè e si parte. Incontro Michele al parcheggio poco prima delle 7 e trovo un uomo che non mi aspetto.
Così come era successo per la voce, anche di persona rimango sorpreso.
Forse mi aspettavo un gigante invece conosco un uomo normale, dall’aspetto gentile. Traspare un fortissimo senso di calma e sicurezza. Spero che questo mi aiuti nell’affrontare i miei demoni.
Ci scambiamo qualche convenevole, infilo nello zaino ramponi e imbrago, all’esterno aggancio piccozza e casco.
Alla fine lo zaino non è molto più pesante del solito. Oggi infatti vorrei provare a salire con la configurazione che eventualmente avrò il fatidico giorno, diversamente non ha senso.
Ci avviamo lungo il comodo sentiero che porta verso il fondo della valle dove il ghiacciaio riposa. L’ultima volta che sono stato qui era circa 2 mesi fa. Il paesaggio è irriconoscibile. La neve è scomparsa dal fondo valle fin su al limitare della morena mettendo in mostra ammassi di roccia che sembrano usciti da un inferno dantesco.
Chiacchierare con Michele mi riporta ad un apparente stato di calma. Mi lascio guidare nei discorsi così come nei passi.
Non voglio che la felicità di conoscerlo diventi una scomoda esuberanza.
Arrivati alla base del ghiacciaio svolgiamo un interessante esercizio di percezione.
Capisco infatti che uno dei temi forti su cui punta Michele, e su cui mi trova perfettamente in linea, è quelle del sentire.
Sentire con tutte le parti del corpo. Piedi, mani, orecchie, olfatto. Ma anche emozioni e sensazioni.
Quindi Michele mi passa una benda tipo quelle che vengono date in aereo sui voli intercontinentali e, privato della vista, mi lascio guidare solo dalla sua voce per districarmi tra terreni diversi e con ostacoli più o meno vari.
E’ un esercizio molto interessante perchè stimola l’ascolto, il pensiero e l’analisi di quello che con il corpo si sta sperimentando. Bellissimo.
Terminato l’esercizio ci lanciamo nel dedalo di rocce che nasconde il vero e proprio ghiacciaio e superata la bocca di quello che sembra un pesce gatto preistorico dalle dimensioni inconcepibili, mettiamo finalmente i piedi sul ghiaccio.
Calziamo i ramponi e l’imbrago legandoci in cordata. Inizia così questa avventura, con una corda arancione che come un cordone ombelicale unisce il mio corpo al suo.
I primi passi sul ghiacciaio sono facili. La pendenza è dolce e il ghiaccio solido si lascia aggredire facilmente dai ramponi. Qualche piccolo crepaccio longitudinale mi mostra il ventre scuro del ghiacciaio.
Cominciano gli esercizi di progressione, fidarsi dell’attrezzatura è dura e l’unico modo per farlo e metterla alla prova.
L’ultima volta con i ramponi per me risale al preistorico periodo di fine anni ’90. Un’era fa.
Le cose procedono bene e mi sento abbastanza tranquillo.
Giungiamo in un budello dal quale pare non esserci via di uscita, ma ovviamente mi sbaglio perchè la via di uscita la facciamo noi. Michele sale qualche decina di metri, lo vedo scomparire dietro la schiena di questa torre ghiacciata.
Dopo qualche minuto arriva il comando “sosta” e poi “libero”.
Ora tocca a me. Difficile districare le sensazioni e le emozioni. Sono chiaramente impaurito nonostante la corda davanti a me sia tesa.
Provo più volte ad attaccare la parete di ghiaccio che ho davanti ma non riesco nemmeno ad alzarmi di quel passo che darebbe il via alla salita.
Mi irrigidisco. Sto sudando l’impossibile per la tensione e la paura.
Pianto la piccozza ma il ghiaccio non tiene. Comincia a farsi strada l’idea di un vaffanculo ma chi me lo ha fatto fare.
Sono decisamente poco lucido e con un dispendio di energie assurdo in una qualche maniera riesco ad alzarmi e a guadagnare i primi metri.
Raggiungo la vite da ghiaccio che ha fissato Michele come sicura e mi chiedo come diavolo faccio a toglierla senza perderla. Tra l’altro usando la mano sinistra.
Un pensiero là dietro mi dice che non c’è fretta, svito la vite e l’aggancio non so come al porta attrezzi dell’imbrago. Fortunatamente i ramponi fanno il loro lavoro anche se le gambe irrigidite dalla tensione bruciano e sento che stanno per iniziare a tremare.
Forza.
Ancora qualche metro di progressione e finalmente la salita si fa meno verticale. Posso raddrizzarmi e tirare fiato. Sento vagamente la voce di Michele che immagino mi stia sostenendo o spronando, sono troppo concentrato sul tutto e sul niente, ovvero non sto capendo nulla ma un passo alla volta lo raggiungo.
Prendo fiato, mi guardo intorno, siamo all’inizio del plateau del ghiacciaio.
Proseguiamo nella neve verso un paio di massi che affiorano. La camminata è scomoda e spesso la gamba sprofonda fino al ginocchio.
Siamo poco sotto i 2400 metri, ci fermiamo qualche minuto per bere un sorso di acqua ed uno snack.
Mi inoltro per qualche decina di metri in questa distesa bianca fino ad una collinetta da dove voglio fare un paio di scatti.
La luce è pessima e tutte le cime sono coperte, ma dalla via che sono qui “immolo” qualche megabyte ad imperitura memoria.
Ci sono situazioni che meriterebbero di rimanere qui tutta la giornata ma l’attività di oggi non è dedicata alla fotografia.
Sono le 11 meno un quarto ed è già ora di ripartire.
Cambiamo decisamente direzione dirigendoci alla nostra destra verso la spalla dal ghiacciaio.
Finalmente usciamo dalla neve ritrovandoci però a dover risalire la sponda della morena districandoci tra rocce instabili.
Una fatica a dir poco ridicola.
Superata la spalla scendiamo in un conca innevata, mi rendo conto che le gambe non vanno, ho già esaurito tutto.
Cammino da solo nei miei pensieri rimuginando su quanto non sia adatto a questo tipo di esperienze.
In questo momento sono piuttosto deciso a lasciar perdere tutto questo progetto.
Raggiungo il rifugio Boval spossato ed infreddolito. Mangiamo qualcosa di veloce e in una mezz’ora siamo già in movimento.
Scendiamo lungo il sentiero che costeggia il ghiacciaio dal quale si gode una vista spettacolare dall’alto.
Vorrei già essere alla macchina, ma abbiamo ancora un paio di cose da provare e dentro di me spero vivamente che inizi a piovere per lasciar perdere.
Cerco di non cincischiare troppo su questi pensieri ma è veramente difficile.
La discesa diventa insofferenza molto velocemente, il ginocchio sinistro urla quasi ad ogni passo.
Invece della pioggia esce un bellissimo sole. Il vento spazza le nuvole liberando le cime. E’ un tripudio di bianco e verticalità. Sulle creste sbuffi di neve e nuvole avvinghiate sembrano disegnare chiome dalle forme fantasiose.
Finalmente raggiungiamo il sentiero principale ma prima di guadagnare la birra promessa, mi tocca passare per uno dei miei spauracchi più profondi, scendere in doppia.
Le ultime volte che ho provato a mettere il culo all’aria mi sono bloccato come pietrificato dalla paura.
Grazie però alla presenza di Michele trovo quella minima sicurezza per affidarmi ancora una volta all’attrezzatura.
Faccio i miei esercizi con una “calma” per me innaturale.
Mi sto muovendo su terreni che prima che ancora fisicamente muovono i ricordi, le emozioni e le paure.
Sono stremato, forse più moralmente che fisicamente e sedermi su di una panca con davanti un bicchiere di birra ghiacciata mi immerge in una bolla di normalità almeno per il tempo che mi separa tra il primo e l’ultimo sorso.
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